VI INVITO A LEGGERE QUESTO ARTICOLO APPARSO SUL CORRIERE DELLA SERA CHE MI HA MOLTO COLPITO. FA CAPIRE TANTE COSE...NON SERVONO COMMENTI BASTA LEGGERLO CON IL CUORE
La storia - L’uomo, dopo
il divorzio, lo alleva da solo in un villaggio cinese della provincia del
Sichuan
Milano, 12 marzo 2014 - 07:18
Il
papà che fa 29 chilometri al giorno
per portare in spalla il figlio a scuola
per portare in spalla il figlio a scuola
Il piccolo è disabile ma
è il primo della classe. «Andrà al college». Dopo che le tvsi sono occupate
della famiglia le autorità cinesi si sono dette disposte ad aiutarla
di Paolo Di Stefano
È
l’uomo dell’anno, secondo il «Daily Mail» . Meglio sarebbe: il padre
dell’anno. Un omino, per la verità. Almeno a giudicare dalle fotografie, in cui
lo si vede camminare con le scarpe da tennis e un giaccone pesante. Siamo nella
Cina meridionale, sulle colline della città-prefettura di Yibin, provincia del
Sichuan. Su sentieri polverosi e accidentati, tra muretti a secco e alberelli
smagriti, il quarantenne Yu Xukang cammina con un bambino sulla schiena,
tenendogli le mani perché non cada all’indietro. Con il figlio dodicenne Xiao
Qiang adagiato dentro un canestro di vimini, il signor Yu Xukang percorre ogni
giorno 18 miglia, ovvero 29 chilometri. A piedi. Dove vanno il papà e il suo
bambino? Raggiungono la scuola, dove Xiao Qiang passa le sue giornate in
classe, a scrivere e fare i calcoli come tutti i bambini del mondo.
4,5 miglia per andare, 4,5 miglia
per tornare in paese a lavorare, 4,5 per tornare nella borgata di
Fengyi Fengxi dove si trova la scuola, 4,5 miglia ancora per riportare il
bambino a casa. 4,5 miglia quattro volte al giorno. Sveglia alle cinque del
mattino, colazione, camminata andata e ritorno, lavoro, seconda camminata
andata e ritorno, cena. E così via, se la matematica non è un’opinione: 18
miglia tutti i giorni, finché le gambe e la schiena reggono, e finché il
governo non gli darà un aiuto, come ha promesso non appena la fatica di papà
Xukang è stata ripresa e raccontata dalle tv locali. È la fatica di un padre
che dopo il divorzio (nove anni fa) ha deciso di crescere in solitudine il figlio
disabile e di permettergli di frequentare le scuole. Un piccolo Ercole delle
colline cinesi. «Sono orgoglioso - dice - che Xiao Qiang sia il migliore della
classe e sono sicuro che farà grandi cose. Il mio sogno è che un giorno si
iscriva al college». Deve essere fiero anche di sé, se ha calcolato che finora,
con il piccolo sulle spalle, ha marciato almeno per 1.600 chilometri. E
continuerà a farlo, con la schiena sempre più ingobbita e le gambe sempre più
deboli, se le
istituzioni
non si muovono. Certo il piccolo Xiao Qiang, con i suoi 90 centimetri di
statura, non potrà rimproverargli nulla: suo padre ha fatto il possibile. E
anche di più.
«Vado a scuola» un film diretto dal francese Pascal Plisson e uscito pochi mesi fa, racconta storie
simili a quella del papà e del bimbo cinese. Racconta lo sforzo immane di tanti
ragazzini, in Kenya, in India, in Marocco, in Patagonia, che devono alzarsi
all’alba e attraversare fiumi, pianure, montagne, kanyon o foreste, per andare
a studiare. Alcuni devono persino caricarsi di secchi d’acqua e di legna,
perché la loro scuola non offre da bere durante la giornata e non garantisce il
riscaldamento. Altri, i giovani Masai, hanno rinunciato a essere guerrieri pur
di studiare. Zahira vive in un villaggio berbero nel Marocco con due fratelli e
quattro sorelle e sogna di diventare poliziotto per difendere i diritti delle
donne e dei bambini del suo Paese. La vediamo camminare sola, un velo nero in
testa e uno zainetto sulle spalle, in mezzo a una montagna arida. Nella Baia del
Bengala il dodicenne Samuel, figlio di pescatori poverissimi, deve percorrere 8
chilometri su una sedia a rotelle (ha contratto la poliomielite da piccolo)
sfidando piogge, sassi e buche. Carlito si mette in cammino, con la sua
sorellina, per 25 chilometri sulla groppa di un cavallo sfidando la Cordigliera
delle Ande con la preoccupazione di non arrivare in ritardo a lezione
Il
documentario di Plisson è stato insignito del logo Unesco e racconta storie
di oggi, che però ci appaiono lontanissime come provenissero dall’Olocene. I
nostri nonni e bisnonni avrebbero potuto raccontarci fatiche simili, vissute
negli anni della guerra, magari sotto le bombe, o poco dopo nelle campagne e
nelle province italiane. Storie di povertà e di ostinazione che per fortuna
sono archiviate sotto la voce «passato remoto». La morale delle favole di ieri
e soprattutto d’oggi, che non sono favole, è fin troppo facile. Talmente facile
che andrebbero lette (o proiettate) ai figli del consumo, annoiati dello
studio, anzi esausti pur avendo camminato soltanto qualche centinaio di metri
per raggiungere la loro scuola, zainetto sulle spalle di papà o di mamma, e
sorbirsi svogliatamente qualche ora di lezione. Morale facilissima, per carità
(e mettiamoci pure tutte le eccezioni del caso). Ma utile per crescere, come
ogni morale della favola. Specie se qualcuno sa spiegare che quella di Xiao
Qiang e di suo padre non è una bella favola ma una dolceamara realtà.
12 marzo 2014 | 07:18
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